Nel 2023 i cittadini stranieri residenti in Italia hanno assorbito 34,5 miliardi di euro in servizi e prestazioni sociali, restituendone però 39,1 in tasse e contributi. Risultato: un saldo positivo di 4,6 miliardi per le casse pubbliche.
Il dato, frutto di un’analisi condotta da tre economisti dell’Università Statale di Milano (Carlo Fiorio e Tommaso Frattini) e dell’Università dell’Insubria (Andrea Riganti) per il Dossier Statistico Immigrazione 2025, ridimensiona narrazioni consolidate. Gli autori hanno incrociato i dati Eurostat Eu-Silc con la spesa pubblica complessiva italiana, pari a 658,8 miliardi. Agli stranieri spetta il 5,2% del totale: 6.600 euro pro capite, a fronte degli 11.600 degli italiani.
La ragione è in larga parte demografica. L’età media più bassa della popolazione immigrata riduce la pressione su pensioni e sanità: appena il 4,3 per cento della spesa sanitaria e lo 0,6 per cento di quella previdenziale riguardano stranieri. Al contrario, il loro peso è più marcato nelle prestazioni assistenziali (22 per cento), riflesso delle condizioni socioeconomiche più fragili e delle famiglie più numerose.
Sul fronte delle entrate, tra Irpef, contributi previdenziali, Iva e altre imposte, gli stranieri hanno versato 39,1 miliardi, equivalenti a 7.400 euro a testa. Non vanno dimenticati i tributi “dedicati”, come le tasse su permessi di soggiorno e cittadinanza, che nel 2023 hanno portato 228 milioni extra nelle casse dello Stato.
Ma la bilancia potrebbe pendere ancora più decisamente a favore dell’erario. “Questo saldo, già positivo, sarebbe persino più vantaggioso – sottolinea Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos – se si superassero le rigidità normative e il modello di segregazione lavorativa che oggi penalizzano i migranti”.
Il riferimento è ai decreti flussi: nel 2023 solo il 13 per cento delle quote assegnate ha prodotto richieste di permesso di lavoro, e appena il 7,5 per cento rilasci effettivi. Nel 2024 la percentuale si è fermata al 7,8 per cento. Una filiera burocratica complessa che spesso spinge verso l’irregolarità e quindi verso il lavoro nero, con perdita di contributi e tasse.
Anche tra chi riesce a lavorare legalmente, il problema resta l’impiego sottoqualificato. Più di sei lavoratori stranieri su dieci sono relegati a mansioni non qualificate o operaie (contro il 29 per cento degli italiani), mentre il part-time involontario colpisce il 14,1 per cento di loro, quasi il doppio rispetto agli italiani. Un potenziale professionale ed economico sottoutilizzato che finisce per penalizzare non solo i diretti interessati, ma l’intero sistema Paese.