È stato presentato al Cnel, in presenza di rappresentanti del governo e del parlamento, ricercatori, sindacalisti, Made in Immigritaly. Terre, colture, culture, primo Rapporto sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare italiano. Commissionata dalla Fai-Cisl, la ricerca è stata realizzata dal Centro Studi Confronti ed è curata da Maurizio Ambrosini, Rando Devole, Paolo Naso e Claudio Paravati.

Edito da Agrilavoro e Com Nuovi Tempi, il volume esamina in oltre 500 pagine i modi in cui il lavoro immigrato viene gestito in contesti specifici e analizza i diversi profili del fenomeno, inclusi i meccanismi virtuosi di cooperazione e integrazione locale che si stanno realizzando sui luoghi di lavoro.

Sono stati raccolti dati, analisi e proposte e approfonditi anche nove casi studio territoriali: l’area di Saluzzo e la frutticoltura, la pianura della bassa bergamasca, specializzata nella produzione lattiero-casearia, la Val di Non con la produzione delle mele, la produzione di asparagi tra bassa padovana e Polesine e l’area vitivinicola della Valpolicella, l’area modenese per la lavorazione delle carni e quella romagnola in particolare la produzione avicola, Castel Volturno, il foggiano con la raccolta del pomodoro e la “fascia trasformata del ragusano” e le coltivazioni in serra.

Dal rapporto emerge che non c’è filiera del made in Italy agroalimentare in cui il lavoro migrante non assuma un ruolo rilevante o insostituibile. “Questa ricerca – ha detto Onofrio Rota, segretario generale della Fai-Cisl – ha il merito di rovesciare una narrazione dominante: quella che vorrebbe ridurre il fenomeno migratorio a costante emergenza sociale o a necessarie braccia da lavoro da confinare alla subalternità. I dati, le analisi e le storie raccolte restituiscono così uno spaccato di vita quotidiana di quei lavoratori e lavoratici di origine straniera che ogni giorno contribuiscono alla crescita del nostro Pil, con un agroalimentare italiano che nel 2023 ha superato 600 miliardi di fatturato e 64 miliardi di export”.

Il presidente del Cnel Renato Brunetta ha aggiunto che “il settore agroalimentare italiano è ricco di eccellenze di cui andiamo fieri, ma dietro l’eccellenza del made in Italy c’è la cattiva coscienza sul ruolo degli immigrati. Servono flussi che prevedano formazione e selezione all’origine, secondo la logica della bilateralità. Una forza lavoro invisibile non è un fattore di crescita, né civile né economica, l’opacità non serve a nessuno”.

Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono stimati in 2,4 milioni circa, più del 10 per cento degli occupati. In agricoltura, però, il loro contributo è certamente più rilevante di questo valore medio: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362 mila alla fine del 2022, e coprono il 31,7 per cento delle giornate di lavoro registrate. I dati istituzionali sono distorti per l’impatto concomitante del lavoro non registrato e delle registrazioni fittizie finalizzate ad accedere ad alcuni benefici sociali; ma offrono un’indicazione orientativa per cogliere la portata del contributo dei lavoratori immigrati all’agroindustria italiana e dei problemi di tutela che devono fronteggiare.

Le principali provenienze nazionali registrate nei dati istituzionali sono Romania, Marocco, India, Albania e Senegal. Le nazionalità dei rifugiati non compaiono nelle prime posizioni, e in generale l’Africa subsahariana è sottorappresentata. I lavoratori rumeni diminuiscono: da quasi 120 mila nel 2016 a 78 mila nel 2022; marocchini, indiani e albanesi crescono di qualche migliaio di unità (rispettivamente 7.009, 7.421 e 5.902). Sostanzialmente stabili i tunisini, passati da 12.671 a 14.071 mentre in termini relativi risulta più marcata la crescita dei senegalesi, che sono quasi raddoppiati, passando da 9.526 a 16.229 (+6.703), e molto sostenuta quella dei nigeriani, passati da 2.786 a 11.894 (+9.108). Aumentano anche i maliani, da 3.654 a 8.123, e i gambiani, da 1.493 a 7.107.

Il problema di base riscontrato dai ricercatori è che accanto a tante buone pratiche di inclusione e realizzazione nell’agroindustria nazionale, per molti immigrati rimane vivo lo spettro dell’invisibilità.

Alla presentazione della ricerca è intervenuto anche il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida: “Abbiamo anche bisogno di lavoratori, esaurita la richiesta interna, che provengono da altre nazioni, ma devono essere lavoratori regolarmente arrivati in Italia, perché questo è il vero investimento. Programmare, come ha fatto questo Governo, anche con flussi triennali, l’arrivo e la formazione. Dobbiamo mettere in condizione le persone che vengono qui di essere trattate con dignità, con pari reddito rispetto agli altri, avendo le stesse opportunità”.

Per il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra “regolarizzazioni, fissazione di quote d’ingresso legali, misure come quelle contenute nel Decreto Cutro sono passi significativi, ma bisogna andare oltre: va costruita una Dublino II, con un sistema comune europeo che garantisca accoglienza, sicurezza e integrazione, con canali di ingresso regolari che permettano, anche attraverso la bilateralità, di incrociare domanda e offerta di lavoro permettendo alle imprese di disporre del necessario fabbisogno di lavoratori ben formati e qualificati, contrattualizzati e retribuiti. L’inclusione multiculturale è un investimento per il futuro che non può conciliarsi con sfruttamento, lavoro irregolare, ghettizzazione, caporalato, da combattere su tutti i fronti: si dia piena attuazione alla Legge 199 del 2016 e si rendano protagoniste le rappresentanze sociali e il mondo del lavoro dentro le aziende nel solco della partecipazione”.

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