In occasione della Festa del Lavoro, la Fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) evidenzia che nel 2023 la domanda di personale immigrato da parte delle imprese italiane nei settori secondario e terziario supera per la prima volta la previsione di un milione di assunzioni. Dai dati stimati grazie al sistema di monitoraggio Unioncamere-Excelsior, pubblicate nel volume Lavoratori immigrati realizzato in collaborazione con il Settore Lavoro e Welfare di Fondazione Ismu, emerge che a guidare le richieste è il settore dei servizi, che assorbe oltre 7 assunzioni programmate su 10, grazie soprattutto al comparto dei servizi alle imprese, che da solo totalizza oltre 321 mila ingressi. Seguono il turismo, con 207 mila ingressi, i servizi alle persone con quasi 125 mila e il commercio, con 101 mila. Per quanto riguarda l’industria, i fabbisogni di personale immigrato riguardano soprattutto l’industria manifatturiera (173mila) e le costruzioni (118mila).
Agli stranieri i lavori meno qualificati
La domanda di lavoratori riflette in buona misura i tratti tipici del “modello” italiano di integrazione, che vede gli immigrati inseriti nei lavori a più bassa qualificazione (circa 3 assunzioni su 10). Prevalgono, infatti, figure come gli addetti alle pulizie di uffici ed esercizi commerciali (128 mila assunzioni previste) e i camerieri (74 mila), ma c’è anche una pressante richiesta per coprire ruoli che scontano grosse difficoltà di reclutamento, spesso anche di tipo specializzato, come conduttori di mezzi pesanti e camion (66 mila). Tra le altre figure richieste: commessi per le vendite al minuto (59 mila), addetti all’imballaggio e al magazzino (58 mila), muratori (54 mila), cuochi in alberghi e ristoranti (42 mila), addetti alla preparazione e distribuzione di cibo (29 mila) e operatori qualificati dei servizi sanitari e sociali (25 mila).
Dai dati elaborati da Ismu emerge l’essenzialità dell’inserimento di nuovi stranieri per la copertura di profili professionali già fortemente caratterizzati dalla loro presenza, come nel caso degli operatori delle mense (oltre quattro assunzioni di stranieri su dieci) e delle professioni sanitarie. Professioni, in particolare queste ultime, per le quali non è affatto detto che i datori di lavoro trovino un’offerta disponibile (nel settore privato della sanità e assistenza sociale).
L’Italia è il Paese con l’età media delle forze lavoro più elevata
Dai dati elaborati da Fondazione Ismu emerge una altissima quota di assunzioni di immigrati per le quali le imprese avvertono difficoltà di reclutamento. Il fabbisogno delle imprese supera l’offerta. Il che appare ancora più rilevante se si considera che, nei prossimi anni, le aziende italiane dovranno misurarsi con la necessità di assicurare il turnover generazionale dei boomer e successivamente degli appartenenti alla generazione X che usciranno dall’età attiva. L’Italia infatti è, insieme alla Bulgaria, il Paese europeo con l’età media delle forze lavoro più elevata. Nel 2026 ben un residente ogni quattro avrà più di 65 anni. Dal 2029 al 2041, secondo Eurostat, l’Italia perderà ogni anno più di 200mila persone in età attiva, con una media di 289mila unità annue in meno.
La competenza più richiesta è la flessibilità
Se si passa a esaminare le competenze più richieste dalle imprese, dalle elaborazioni del database Excelsior realizzate da Fondazione Ismu emerge che dai lavoratori stranieri ci si aspetta molto spesso la flessibilità (nel 61 per cento dei casi), davanti al saper lavorare in gruppo (nel 49,2 per cento). Per tutte le dieci skill prese in considerazione, d’altra parte, mediamente si osserva sempre un maggior tasso di richiesta delle aziende nei confronti degli italiani che non degli immigrati, da un massimo di oltre dodici punti percentuali in più per quanto riguarda il saper utilizzare tecnologie digitali (25,7 per cento contro 13,2) a un minimo di poco più di due (42,2 per cento contro 40,1) per quanto concerne il risparmio energetico e la sostenibilità ambientale. Più interessante di tutti, da questo punto di vista, è il secondo divario maggiore nelle incidenze di aspettative tra italiani e immigrati da parte delle imprese, che riguarda una tipica competenza trasversale come il problem solving: 44,3 per cento tra gli italiani contro 33,7 tra gli immigrati, e in particolare nel caso eclatante degli addetti all’informazione nei call center (senza funzioni di vendita) la richiesta di problem solving riguarda il 78,8 per cento delle assunzioni previste di italiani ma solo il 36,7 di quelle di stranieri. Tra gli addetti alla gestione dei magazzini si passa, invece, comunque dal 65,2 per cento tra gli italiani al 26,7 fra gli stranieri.
Via via che dalle professioni più specializzate si passa a quelle meno qualificate si riducono le aspettative relative alle skill che i nuovi assunti dovrebbero possedere. Le aziende italiane, dunque, sembrano caratterizzarsi per un approccio tendenzialmente più universalistico quando si tratta di reperire figure ad elevata qualificazione, per le quali rilevano soprattutto credenziali formali e saperi qualificati.
Le imprese italiane sono state, nel corso degli ultimi 30 anni, uno straordinario laboratorio di convivenza, dimostrando una grande capacità di gestire la trasformazione multietnica e multireligiosa dei propri organici aziendali, anche nelle sue implicazioni inevitabilmente conflittuali, e di favorire l’inclusione anche di categorie vulnerabili, riuscendo talvolta a metterne a frutto il diversity dividend. Tuttavia, le stesse evidenze sopra riportate dicono di come siano ampi i margini di manovra per migliorare la qualità in senso lato del lavoro degli immigrati e la stessa capacità di sfruttarne il valore aggiunto per la performance organizzativa.
A tale riguardo, le indicazioni elaborate dal Settore Lavoro e Welfare di Fondazione Ismu, raccolte anche in un booklet sul Diversity Management per le risorse umane immigrate, riguardano, tra l’altro, la necessità di acquisire (anche attraverso il ricorso a un sapere esperto) la capacità di gestire consapevolmente la “diversità” collegata al background migratorio, attraverso strategie Diversity, Equity & Inclusion integrate con gli impegni di responsabilità sociale d’impresa e cittadinanza d’impresa.
Ugualmente, si segnala l’opportunità di favorire la messa a valore delle skill apprese in contesti formali e non formali che vede negli immigrati dei soggetti paradigmatici rispetto alla sfida di non dissipare un patrimonio di conoscenze e competenze che potrebbe rivelarsi strategico tanto per le carriere individuali quanto per lo sviluppo delle strategie aziendali.
È fondamentale che le aziende acquisiscano consapevolezza del potenziale d’azione, e quindi di responsabilità, di cui dispongono, anche nel disegnare i tratti del modello di integrazione degli immigrati.